Constable

Il carro da fieno (1821). National Gallery, Londra

 

John Constable (East Bergholt, 1776 – Londra, 1837)

 

John Constable fu il primo grande pittore romantico nella storia del paesaggio, le sue opere hanno come protagonista il paesaggio inglese. Determinato a rinnovare ed elevare questo genere di pittura, ruppe col mondo degli artisti neoclassici che usavano il paesaggio come mero fondale di scene mitiche o storiche. La visione pura e verosimile della natura è lo scopo ultimo della sua arte. I paesaggi di Constable sono sempre gradevoli, ritraggono paesaggi nei quali c’è un felice equilibrio tra l’uomo e la natura, differenziandosi in questo dal romanticismo tedesco.

 

Per il Maestro il ruolo di un artista è quello di indagare scientificamente la natura, osservandone e comprendendone i fenomeni; sulla base di questa convinzione, eseguì una serie di bozzetti aventi come soggetto le nuvole nel cielo e quest’ultimo arriva ad assumere un ruolo fondamentale sia nella composizione che nelle emozioni delle opere «È molto difficile indicare una categoria di paesaggio in cui il cielo non sia l’elemento chiave, la misura della bilancia e il principale organo del sentimento».

 

A differenza di molti suoi contemporanei, Constable dipingeva ciò che gli si parava davanti, utilizzando bozzetti preparatori per catturare l’ispirazione di un momento per poi correggerli e rielaborarli nel suo studio. Dipingendo frequentemente all’aperto riusciva a cogliere le variazioni cromatiche provocate dai cambiamenti della luce, gli effetti dell’umidità dopo la pioggia ed i movimenti della vegetazione mossa dal vento. La sua tavolozza di colori era popolata da tonalità naturali e verdi vivissimi, in modo da imitare le colorazioni della campagna inglese, dove dominavano i pigmenti artificiali, che riteneva più fedeli al vero. Per catturare in maniera realistica lo scorrere dei fiumi ed il movimento degli alberi nel vento, il Maestro ideò un nuovo utilizzo dei colori: sovrapponendo strati di rosso con strati di verde, riuscì a creare una profondità di campo inedita e ad infondere un fremito vitale alla natura; punti di luce illuminavano i riflessi dell’acqua in movimento sugli edifici e sulle persone. In un ambiente artistico in cui i paesaggi erano rappresentati in modo stilizzato ed esageratamente drammatico, le opere del Maestro furono una vera e propria boccata d’aria fresca.

L’opera di questa settimana è il “Carro di fieno” nella quale il carro che attraversa il fiume guidato dal contadino e la casa rurale sulla sinistra sono parte del paesaggio come gli alberi dello sfondo illuminati dal sole e l’acqua pura del torrente.

 

Un dipinto che incarna appieno il sentimento dell’artista «il rumore dell’acqua che esce dagli sbarramenti di un mulino, salici, vecchie massicciate marcite, pilastri sdrucciolevoli, muri di mattoni. Amo queste cose».

 

A differenza dei paesaggi simmetrici classici, Constable decise di sacrificare la simmetria al realismo, dipingendo quello che vedeva. Predominano i colori naturali che creano un contrasto fra il carro che si rispecchia nell’acqua, la delicatezza degli alberi e la solidità dell’edificio sulla sinistra; le diverse tonalità si completano a vicenda e la loro ripetizione aumenta l’armonia dell’opera, come il blue del cielo che si riflette nell’acqua. Gli alberi e l’erba circondano ed alleggeriscono l’intera composizione che il giallo dei prati renderebbe troppo claustrofobica.

 

In questo capolavoro possiamo ammirare una delle tecniche più innovative utilizzate da Constable, ovvero l’utilizzo di pigmenti bianchi per creare effetti di luce sull’acqua, evidente nella scia lasciata dalle ruote del pesante carro.

 

Le nuvole, con le loro forme e variazioni cromatiche infinite, sono mosse da un fremito vitale che le rende interpreti di una Natura che può essere al tempo stesso dolcissima e matrigna.

Tiziano

Ritratto di Carlo V a cavallo (1548). Museo del Prado, Madrid

 

Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1490 – Venezia, 1576)

«Mediante la sua “alchimia cromatica” Tiziano riesce ad intuire una realtà più profonda e lirica»

 

Già da bambino Tiziano era dotato di un talento straordinario, a soli dieci anni «[…] digiuno di qualunque nozione elementare del disegno, essendo ancora fanciullo, sul muro della casa paterna effigiò l’immagine di Nostra Donna (la Madonna), valendosi per colorirla del succo spremuto dalle erbe e dai fiori: e tale fu lo stupore, che destò quella primizia del suo genio pittorico, che il padre stabilì di mandarlo col figlio maggiore Francesco a Venezia presso il fratello Antonio, affinché apprendesse le lettere e il disegno».

 

Dopo il periodo iniziale nel quale Tiziano fece sua l’eredità di Giorgione, seppure rafforzata da una personalissima vivacità della tavolozza, il suo stile virò verso un classicismo cromatico particolarmente sereno e gioioso avente come base un profondo senso naturalistico. Verso gli anni Quaranta del ‘500, il sereno classicismo del Maestro venne incrinato dai nudi muscolosi dalle pose scultoree del Manierismo; un Manierismo piegato alla sua necessità espressiva, attraverso un cromatismo pieno ed intenso. I ritratti di Tiziano vennero perfezionati attraverso l’unità di visione fra la figura e l’ambiente, approfondendo la schietta analisi psicologica alla quale sottoponeva i suoi personaggi e, attraverso pennellate rapide ed incalzanti, svalutando la forma a favore della luce.

 

Nel decennio successivo Tiziano trovò nei soggetti di carattere pagano e mitologico maggiore libertà per approfondire fantasticamente il proprio linguaggio pittorico, un processo nel quale la forma plastica viene scorporata in una puramente cromatica, dal valore lirico; le forme vengono plasmate da fiamme e crepitii dorati, in un continuo gioco di luci.

 

Svalutando i canonici valori rinascimentali della forma e dello spazio, Tiziano riuscì ad afferrare una realtà più profonda e, allo stesso tempo, più poetica. Questa trasformazione dello strumento linguistico, ovvero il passaggio da una forma pittorica chiusa ad una totalmente aperta caratterizzata da luce e colore, fu lunga e faticosa per il Maestro; ciò a dimostrazione del fatto che si trattò della necessità di dare ascolto ad una profonda esigenza del suo sentimento. In questo modo Tiziano riuscì ad interiorizzare la propria emozione, sganciandola dalla piena adesione alla realtà naturalistica e riportandola ad un ambito interiore della propria coscienza.

 

Negli ultimi decenni della sua carriera, attraverso il dissolvimento del colore nella luce, il Maestro creò un mondo magico popolato di apparenze, caratterizzato da ricchezza lirica e drammatica. Paesaggio e figura, natura ed umanità, si fondono nella consapevolezza di un sentimento tragico della vita: l’uomo non domina più lo spazio come nella tradizione rinascimentale, ma ne diviene un tutt’uno, fondendosi con la materia che lo circonda.

 

L’opera di questa settimana è “Ritratto di Carlo V a cavallo”, nella quale il sovrano, avvolto nella luce sanguigna del tramonto, irrompe al galoppo sul campo della battaglia contro i protestanti a Mühlberg. Il cavallo, nervoso e bardato a parata, viene trattenuto con gesto deciso dal sovrano che posa con fierezza nella sua armatura. Le figure sono messe in risalto attraverso l’utilizzo di contrasti, il cavallo scuro bardato con un mantello rosso risalta sullo sfondo chiaro, così come l’armatura lucente e dorata spicca contro gli alberi scuri del paesaggio. Il paesaggio è dipinto con tonalità tendenti al verde scuro ed il cielo è illuminato da accesi bagliori dorati.

 

Il primo piano dell’opera è interamente occupato dal destriero e dalla lancia che lambiscono i due bordi dell’opera, la gradazione degli alberi sullo sfondo suggerisce la profondità. L’intera composizione è carica di un potenziale movimento, ingabbiato dalla simmetria centrale. La lancia nella mano destra è un evidente richiamo simbolico alle armi di Longino e di San Giorgio, a simboleggiare l’investitura divina del Sovrano nel ruolo di difensore della cristianità minacciata dal Protestantesimo.

Munch

L’Urlo (1893). Galleria Nazionale, Oslo

 

Edvard Munch (1863, Løten – 1944, Oslo)

«… il pittore esoterico dell’amore, della gelosia, della morte e della tristezza»

 

L’infanzia di Munch fu segnata da una lunghissima serie di lutti famigliari, tanto che avrebbe scritto in seguito: «ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio della consunzione e la follia». Malattia, infermità, morte e pene diventarono per l’artista le condizioni caratterizzanti la vita umana, in quest’ottica, evocarne l’allucinante violenza attraverso la rappresentazione artistica, diventava quasi un modo per esorcizzarle.

 

La Norvegia, all’epoca, era un Paese privo di una tradizione pittorica indipendente: tutto ciò che alla fine dell’Ottocento ad Oslo poteva passare per avanguardismo artistico, non era altro che una rielaborazione dell’Impressionismo francese in chiave naturalistica. Fu questo il clima che influenzò l’esordio artistico del Maestro, finché, da autodidatta, trovò uno stile personalissimo.

 

Con l’opera “Il bambino malato”, ogni collegamento con lo stile naturalista ed impressionista venne irrimediabilmente spezzato: lo spazio, persa qualsiasi struttura chiusa, diventa amorfo ed è un luogo nel quale le figure, semplificate, sono preda di profonde emozioni. Il colore è il corrispettivo ottico della malattia.

 

Nel 1885 iniziò una serie di dipinti dal titolo “La fanciulla malata”, aventi per tema una ragazza giovanissima in fin di vita a causa della tisi; in tali opere riecheggiano le tragiche morti che hanno segnato la giovinezza del Maestro, «Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La bambina malata. […] Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli». Non è il dolore fisico ad essere protagonista, bensì quello psicologico, la disperazione esistenziale di «esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto ed amato».

 

Munch, per la sua sensibilità ed esperienze di vita, fece suo lo spirito di quel periodo che metteva fortemente in dubbio le capacità dell’essere umano alla luce dell’insondabilità del suo inconscio.

 

L’opera di questo settimana non poteva che essere “L’urlo”, trasposizione su tela di un evento autobiografico: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Balza subito agli occhi una figura, terrorizzata, che per urlare si tiene la testa tra le mani; questo grido sovrumano l’ha trasfigurata, il suo corpo è deforme, rendendola quasi un fantasma. Il corpo appare morente, con gli occhi sbarrati, le narici dilatate e le labbra nere: ogni goccia di vita è stata prosciugata da un abominio. Il centro dell’opera è occupato dalla bocca, aperta in maniera innaturale, che col suo urlo toglie equilibrio al paesaggio distorcendolo. Il suo volto è di un pallore cadaverico.

 

Gli unici a non essere coinvolti da questo grido dell’intera razza umana sono i due uomini sula sinistra, i quali rimangono insensibili davanti a questa catastrofe emozionale; questo simboleggia la falsità e vanità dei rapporti umani. Guardando dentro di sé l’artista e l’intera umanità non trovano altro che sofferenza. Il paesaggio è innaturale, ostile, quasi un prolungamento dell’angoscia del Maestro; il mare è nero ed il cielo è solcato da nuvole cariche di un rosso sanguinolento.

 

Vorrei chiudere il post di questa settimana con questo pensiero di Munch: «In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro. Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore. Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere nel sangue del nostro cuore. L’arte è il sangue del nostro cuore». I suoi dipinti, che sembrano il trionfo della solitudine dell’uomo nella sofferenza universale, rappresentano il desiderio di Munch di aprire il proprio cuore di fronte all’umanità intera, di svelarne le sofferenze e le inquietudini più profonde; per esorcizzare quel grande ed infinito urlo che chiunque ha sentito, almeno una volta, nella propria vita.

Kirchner

Scena di strada berlinese (1913). Neue galerie, New York

 

Ernest Ludwig Kirchner (Aschaffenburg, 1880 – Davos, 1938)

«La tragedia della solitudine umana entro il drammatico dinamismo del mondo contemporaneo»

 

«La luce moderna della città, collegata al movimento delle strade, mi dà nuovi spunti. Si diffonde sul mondo una nuova bellezza, che non è riposta nella particolarità dell’oggettivo. Erudendomi attorno a questo problema così ricco, anche la libera natura di fuori ha assunto ai miei occhi un altro volto».

 

Kirchner si formò a Monaco e Dresda sugli esempi della cultura figurativa postimpressionista e simbolista, movimento e sintesi cromatica furono i suoi primi interessi maggiori. Ai primi del ‘900 scoprì l’arte etnica africana al Museo etnografico di Dresda. Nel 1905 costituì, insieme ad altri artisti suoi amici, il gruppo “Il Ponte”, il cui programma è un invito ad un radicale rinnovamento espressivo «Fidando nel progresso, in una nuova generazione di artisti e di amatori, convochiamo tutti i giovani e, come giovani che portano con sé il futuro, intendiamo crearci libertà di azioni e di vita, in opposizione alle vecchie forze bene assestate. Fa parte di noi chiunque renda con immediatezza e sincerità ciò che lo spinge alla creazione». Kirchner fu di questo gruppo la guida, tuttavia la sua personalità andò sempre più caratterizzandosi in una cupa e drammatica tensione interiore che, sebbene in un primo momento contrastata dalla partecipazione allo spettacolo del mondo contemporaneo, diventò sempre più determinante; «Il mio lavoro nasce dal desiderio di solitudine… ero sempre solo, e quanto più andavo tra gli uomini, tanto più sentivo la mia solitudine… Ciò dà una profonda tristezza, e questa si scioglie solo nel lavoro».

 

Interesse di Kirchner era quello di sottolineare il tono psicologico delle scene di vita moderna, esaltata nel suo drammatico dinamismo e vitalismo, sottolineandone i conflitti basilari: individuo- collettività, natura-città e spirito-materia.

La città divenne il caos interiore degli uomini, il luogo dello scontro fra l’individuo e la massa e fra la solitudine e la coralità; non a caso il periodo in cui Kirchner si trasferì a Berlino (metropoli che esercitava un irresistibile fascino sugli artisti dell’epoca) coincise con la sua maturità artistica. Trovarsi faccia a faccia con «tutta la magnificenza e stranezza, tutta la mostruosità e la tensione drammatica dei viali, delle stazioni, delle fabbriche e delle torri», suscitò in Kirchner la necessità di rivisitare i propri strumenti formali: le immagini subirono una deformazione verticale e le figure acquistarono una plasticità corporea.

 

Nel 1915 l’artista partì volontario per andare a combattere nella Grande guerra che lo lasciò profondamente segnato sia sul piano spirituale che fisico. Per riprendersi si stabilì a Davos, che divenne il suo rifugio spirituale; il contatto con la natura fece assumere nuova forza vitale alla sua opera dalla quale scomparve il tormento e l’accanimento, ed i colori divennero più splendenti e vivaci. «È un bellissimo lavoro dare realtà al sogno».

 

L’opera di questa settimana è “Scena di strada berlinese” del 1913, fa parte delle scene di strada che Kirchner dipinse fino al 1915 ed aventi come tema la vita notturna berlinese. In quest’opera è evidente il ricorso al primitivismo (richiamo all’arte preistorica), sia per la composizione che per i colori dove predominano il rosso ed il bleu. Nei volti, pallidi, inespressivi e fortemente allungati, affiora il richiamo alle maschere africane che in quegli anni iniziavano ad essere esposte nei musei europei. La composizione dell’opera, molto dinamica, suggerisce la frenesia della vita cittadina. Le figure sono inserite in uno sfondo geometrico ed artificiale.

 

La dittatura nazista, nella sua furia scellerata di ripulire i musei da quella che definiva “Arte degenerata”, sequestrò e distrusse innumerevoli lavori di Kirchner. Nel 1937, le sue opere insieme a quelle di tanti altri artisti, vennero mostrate in un’esposizione diffamatoria per poi essere distrutte. Un anno dopo Kirchner decise di togliersi la vita.

Di fronte alla tragedia nazista che distrusse tutte le sue speranze in un rinnovamento dell’arte tedesca, Kirchner si sentì privo della forza fisica necessaria per realizzare la sua missione, e quel gesto estremo gli sembrò l’unico modo di affermare il proprio rifiuto.

Hokusai

La grande onda di Kanagawa (1830). Copie conservate in varie musei del mondo

 

Katsushika Hokusai (Edo, l’attuale Tokyo, 1760 – Edo, 1849)

«Anche se fantasma me ne andrò per diletto sui campi d’estate», Haiku (componimento poetico) scritto da Hokusai sul letto di morte

 

Nato in una famiglia estremamente povera, all’età di cinque anni venne adottato da una prestigiosa famiglia di artigiani di specchi dalla quale imparò le prime tecniche del disegno. A quindici anni, Hokusai iniziò a lavorare per un incisore e, pochi anni dopo, riuscì a diventare allievo della Scuola di Ukiyo-e (letteralmente “immagini del mondo fluttuante”) dove apprese la tecnica per realizzare stampe con una matrice incisa nel legno. All’inizio Hokusai fu noto soprattutto per i Surimono (traducibile in “cose stampate”), ovvero scene in legno accompagnate da frasi augurali. Nel corso della sua lunghissima carriera esplorò una miriade di tecniche e di stili: inizialmente legato ai dettami del maestro Shunsho, intraprese ben presto una strada del tutto personale e lontana dai canoni tradizionali.

 

Negli ultimi anni della sua vita, segnati da difficoltà e da una grave malattia, il “vecchio pazzo per la pittura” (come era soprannominato Hokusai) riuscì a produrre le opere più importanti della sua carriera, come le Trentasei vedute del Monte Fuji, serie di xilografie policrome aventi come protagonista il monte giapponese e contraddistinte dall’innovativo uso del “Bleu di Prussia” capace di donare un tono etereo.

 

Proprio da questa serie ho scelto l’immagine per il post di questa settimana, “La grande onda di Kanagawa”. In questa xilografia è rappresentato il tratto di mare in tempesta nei dintorni di Tokyo, la grande onda incarna la potenza e forza della natura che, con gli “artigli” dei riccioli di schiuma dell’acqua, sovrasta tre insignificanti barche. A controbilanciare questa furia possiamo vedere il Monte Fuji che, sullo sfondo, in un imperturbabile silenzio osserva il destino dei pescatori; la montagna con la cima innevata, nella cultura giapponese è un simbolo religioso e di bellezza.

 

La forza prorompente dell’acqua è posta sullo stesso piano della sacralità della montagna, entrambe rappresentate con i colori bleu e bianco che simboleggiano le forze elementali dell’acqua e del fuoco. La tecnica prospettica usata da Hokusai crea un forte contrasto tra lo sfondo ed il primo piano, la violenza dell’onda contrapposta alla serenità dello sfondo vuoto evoca i principi dello yin e yang con l’uomo impotente che lotta al centro.

 

La forza dell’acqua è utilizzata per mettere in risalto gli sforzi degli uomini, in bilico tra ciò che sono e quello che vorrebbero essere, ed allo stesso tempo l’instabilità dell’onda rappresenta la fiamma vitale che muove tutto, quel mutamento che fa andare avanti il mondo.

Tenendo a mente per un attimo il periodo storico nel quale quest’opera è stata prodotta, gli anni attorno al 1830, ovvero il momento in cui l’auto-isolamento del Giappone stava volgendo al termine, questa grande onda potrebbe rappresentare quella barriera creata dalla forza della natura per allontanare la cultura straniera. Dopo il 1850, quando l’arte Giapponese iniziò ad essere nota anche in Europa, la sua influenza fu dirompente; proprio grazie al mare, col suo violento ed incessante movimento, quelle opere raggiunsero il Vecchio Continente perpetuando quel mutamento ed avanzamento dell’uomo possibile solo attraverso l’incontro di culture e sensibilità diverse.

David

La morte di Marat (1793). Museo Reale delle belle arti del Belgio, Bruxelles

 

Jacques-Louis David (1748, Parigi – 1825, Bruxelles)

«Singolare miscuglio di realtà e ideale»

Le opere d’esordio di David erano fortemente impregnate dai residui dell’arte Settecentesca e del Rococò, ancora molto apprezzati dalla nobiltà. Nel 1774, dopo una serie di insuccessi, il dipinto “Antioco e Stratonice”, con una composizione semplificata e rigorosa, gli fece ottenere il Prix de Rome, borsa di studio che consentiva agli artisti più meritevoli di studiare per tre anni all’Accademia di Francia a Roma.

Nella Città eterna, il contatto diretto con le opere classiche contribuì a ripulire il suo stile dalla pomposità del Rococò, gettando quei semi che, una volta germogliati, lo avrebbero reso capofila del Neoclassicismo (ovvero del Vero stile, come veniva chiamato all’epoca).

Il movimento neoclassicista era caratterizzato dal recupero delle forme classiche, come norma della perfezione, simmetria e chiarezza, contrapposte all’irregolarità dell’arte barocca e sostenute dalla ricerca di un fondamento razionale del bello. Uno dei motivi per questo rinnovato interesse per il mondo antico, furono le importantissime scoperte archeologiche avvenute nel Settecento (basti citare Pompei, Ercolano ed i templi di Paestum), che ampliarono notevolmente la conoscenza del passato e misero in risalto il rapporto tra arte greca ed arte romana, con quest’ultima vista solo come un riflesso della prima.

La constatazione che la semplicità dell’arte classica aveva permesso di raggiungere una nobile grandiosità, fece apparire il Barocco come una degenerazione dell’arte rinascimentale, piegata alla ricerca dell’effetto spettacolare ed illusionistico.

Non è questo il luogo per discutere l’operato politico di David durante gli anni turbolenti della Rivoluzione francese, né del Direttorio e neanche del dopo 18 Brumaio che potrebbero, come successo alla critica del passato, offuscare la grandiosità delle sue opere.

Questa settimana ho scelto un quadro che incarna proprio l’eroismo ed il dramma della Rivoluzione francese, ossia la “Morte di Marat”. Marat, direttore del giornale l’”Amico del popolo” fra i più influenti durante la Rivoluzione, venne assassinato da una donna, mentre si trovava immerso in una vasca nel tentativo di alleviare la malattia della pelle che lo tormentava da anni. David, amico di Marat, immortalò la sua morte con un quadro che divenne immediatamente famoso; la scelta di raffigurare il momento successivo all’uccisione è legata alla volontà di farlo assurgere al ruolo di martire-eroe. Il luogo del delitto, è volutamente spoglio per non ridurre l’accaduto ad un mero fatto di cronaca; lo sfondo è di un semplice verde monocromatico, spezzato da un pulviscolo dorato nell’angolo in alto a destra, la figura abbandonata nella morte sembra quasi immersa in una luce di ispirazione caravaggesca.

La vasca diviene un sarcofago, la cassa di legno che gli serviva da scrittoio, sulla quale David dipinse la propria dedica, assume la forma di una lapide.

Il ritmo orizzontale della composizione è spezzato dal braccio che cade verticalmente, quasi a ricordare le rappresentazioni della deposizione di Cristo, a questa impressione contribuiscono anche la ferita al costato ed il sangue. Nella mano destra Marat stringe ancora la penna, dal forte valore simbolico; nell’altra si vede la falsa lettera di supplica con la quale l’assassina riuscì a raggiungerlo. Sullo scrittoio possiamo vedere l’assegno destinato ad una donna in difficoltà. A terra è rimasto il coltello, unica traccia dell’assassina, quasi condannandola all’oblio; coltello e penna vengono a trovarsi sullo stesso piano, due armi dalla natura ben diversa.

Quello che mi ha sempre colpito di quest’opera è il senso di sacralità e di silenzio che emana: in un periodo sanguinoso e di tumulto come quello della Rivoluzione francese, Marat muore nell’intimità del suo bagno, circondato dal suo lavoro. Nella mia testa associo questa morte a quella che avviene alla fine del libro “Il deserto dei Tartari”: dopo una vita spesa ad aspettare il nemico e sognando la gloria, il protagonista muore per cause naturali, proprio quando la battaglia è infine scoppiata, nel silenzio e nella solitudine della sua camera e capisce che è la sua la guerra più importante. Superare l’individualità e sconfiggere la paura di morire, è questa la missione di ciascuno.

Friedrich

Viandante sul mare di nebbia (1818). Hamburger Kunsthalle, Amburgo

 

Caspar David Friedrich (1774, Greifswald – 1840, Dresda)

«Sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi». Quale introduzione migliore di questa citazione di Kant per Friedrich, il primo pittore romantico tedesco?

Il Romanticismo, le cui embrionali idee erano sorte verso la metà del Settecento, rivalutò la sfera del sentimento, della passione e dell’irrazionalità, caratterizzate da forti suggestioni religiose. Se il Neoclassicismo aveva come ideale il “bello”, il Romanticismo introdusse una nuova categoria estetica: il “sublime”; la radice di questo concetto risiede nei sentimenti di paura suscitati dalla dismisura e dall’infinito. Il sublime scaturisce dal conflitto tra ragione ed irrazionalità, è quel sentimento di sgomento e piacere che assale l’uomo di fronte all’incommensurabile o di fronte agli sconvolgimenti dei fenomeni naturali che gli ricordano la propria fragilità. Secondo le parole di Friedrich «Sublime è per me un principio immenso, un qualcosa che vola più in alto di un uccello, che corre più veloce di un ghepardo, che è più impetuoso della tempesta, che è più dolce di un bacio… Sublime è una sensazione indescrivibile che occupa il cielo ma che può essere racchiuso anche in un piccolo fiore».

In contrapposizione al Neoclassicismo, ed alla sua ispirazione al mondo ideale classico, il sentimento di rovina è tipico della poetica romantica: le rovine, ovvero il degradarsi delle opere umane, incarnano la potenza dell’incalzante incedere del tempo.

L’artista romantico ha un animo ipersensibile, preda di continui turbamenti, disperato, pessimista; è un personaggio che vive il proprio malessere psicologico con grande drammaticità. Frutto di questo atteggiamento è un’arte che, spesso, ricerca l’orrore. Altrettanto potente fu la riscoperta dei valori religiosi, con l’arte vista come strumento per analizzare l’anima delle cose; fu proprio questo nuovo interesse per la dimensione dell’interiorità e spiritualità umane a far preferire al romanticismo arti non figurative, come la musica e la letteratura.

Prototipo dell’artista romantico, Friedrich, fu schiavo di una profonda malinconia e solitudine, risalenti agli eventi tragici della sua infanzia. L’osservazione della natura divenne necessaria per esprimere la sua inquietudine verso la consapevolezza dell’aleggiare della morte sulle cose umane e naturali. Profondamente affascinato dal lato mistico della natura, i paesaggi diventarono strumento di misura per la piccolezza umana di fronte agli orizzonti smisurati, un infinito che simboleggia Dio. Il paesaggio, fino ad allora semplice fondale del dramma umano, divenne un soggetto autosufficiente; i quadri di Friedrich raffigurano molto spesso una persona di spalle assorta nella contemplazione dell’infinito. Friedrich abbandonò i canoni della tradizionale pittura paesaggistica, sostituendoli con paesaggi stilizzati ed atmosfere malinconiche; non dipingeva all’aperto, ma in studio mescolando il ricordo all’immaginazione, l’osservazione all’introspezione.

Le sue opere traboccano di rovine, nebbie e di simbolismo: la morte viene rappresentata attraverso salici piangenti, barche che si allontanano dalla riva, tronchi di alberi. A questi si affiancavano i cieli infiniti, simbolo di redenzione e salvezza.

Come opera di questa settimana non potevo che scegliere il “Viandante sul mare di nebbia”, una delle più celebri di Friedrich. Un uomo, da solo, in cima ad una montagna, guarda l’orizzonte che gli si staglia davanti, la figura è di spalle in modo da far immedesimare lo spettatore; nella mano destra stringe un bastone, dal quale sembra trarre conforto e forza per affrontare quell’immensità terribile che gli si para innanzi. La nebbia assume la consistenza liquida ed il movimento delle onde del mare, conferendo al paesaggio contorni sfumati, dalle quali emergono rocce e montagne dipinte con estrema precisione. Nebbia e cielo arrivano a fondersi all’orizzonte. Al bleu, rosa e grigio utilizzati per l’oceano di nebbia, si contrappongono le tonalità opache degli elementi solidi. Tema sottostante di quest’opera è lo scorrere del tempo il quale, nella sua infinitezza, annichilisce l’uomo perpetuando la natura, affiancato dalla tristezza per l’incapacità della razza umana di fondersi con la matrice divina del tutto.

«Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce ciò che hai visto nell’oscurità, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno», Caspar David Friedrich.

Canaletto

Regata vista da Ca’ Foscari (1732). Royal Collection, Windsor

 

Antonio Canal, detto il Canaletto (1697, Venezia – 1768, Venezia)

«Una rigorosa verità d’osservazione in una incantevole serie di vedute»

Figlio di un “pittore da teatro”, scenografo, Canaletto iniziò il suo apprendistato nella bottega del padre. Da giovanissimo si recò a Roma per realizzare le scene di due drammi di Scarlatti; questo viaggio gli fece fare conoscenza con la pittura vedutista. Questo genere pittorico, sviluppatosi nel Settecento, è distinguibile in due filoni: il capriccio, nel quale vengono rappresentati paesaggi totalmente di fantasia oppure costituiti da elementi reali ma modificati per renderli più teatrali; e la veduta realistica che riproduce fedelmente il vero. Vedute di natura e città erano già stabilmente presenti nella storia dell’arte ma, col vedutismo, i paesaggi costituiscono il semplice sfondo dell’azione umana.

Canaletto, al suo rientro a Venezia, si dedicò ai capricci ed alle vedute idealizzate; la sua tecnica lo fece diventare, in pochissimo tempo, uno dei pittori più affermati e richiesti. Le sue prime opere, influenzate dalla sua formazione di pittore di scenografie, presentavano colori molto scuri e forti contrasti fra ombre e luci; molto velocemente Canaletto passò a toni più luminosi capaci di infondere serenità alla composizione. Grazie all’utilizzo di una camera ottica (antenata delle moderne fotocamere), con la quale si aggirava per la sua città, il Maestro riusciva ad abbozzare immagini di straordinaria precisione da rielaborare in studio. Era questa la sua peculiarità: la ricerca minuziosa dei dettagli per ricostruire una personalissima visione di Venezia, deformata e stravolta nelle proporzioni per ottenere l’effetto desiderato. La Serenissima venne ritratta in ogni suo angolo e la sua quotidianità fissata su tela, Canaletto ne colse i fasti dipingendo le regate, le celebrazioni solenni e le visite di personalità importanti.

La crescente fama lo fece notare ai vari giovani ricchi aristocratici inglesi che visitavano Venezia quale tappa preferita del Gran Tour, ma il personaggio che si rivelò decisivo per la sua carriera fu Joseph Smith, facoltoso collezionista e console britannico nella Serenissima. Inizialmente cliente di Canaletto, Smith ne diventò presto l’intermediario, regolandone la produzione ed il mercato, con la ricca clientela inglese. Nel 1746 il Maestro, preceduto da una solida fama, si trasferì a Londra dove realizzò varie vedute della città e della campagna circostante. Alla Laguna si sostituì il Tamigi ma la visione dell’artista rimase immutata.

Il percorso poetico di Canaletto andò malinconicamente a concludersi nei suoi ultimi anni di vita quando, rientrato in patria, le sue opere si conformarono alla routine dei canoni convenzionali.

L’opera di questa settimana è “La regata vista da Ca’ Foscari”, capolavoro di un’originalissima sintesi di luce e colore. In tale dipinto è rappresentata una delle feste più tradizionali di Venezia; la maestria di Canaletto è evidente nella rappresentazione dell’addensarsi della folla, ottenuta attraverso il cristallizzarsi della luce, delle imbarcazioni ai bordi del canale, e l’inseguirsi delle gondole. La luce pomeridiana splendente è sospesa sulle facciate dei palazzi. Gli edifici svolgono il ruolo di sipario per il canale brulicante di vita ed azione. Quest’opera è il trionfo della veduta pura e sincera, nella quale viene rivelata l’essenza più profonda del soggetto.

Ciò che ha reso Canaletto immortale è stato l’essere in grado di sostenere a lungo il ruolo di pittore ricercatissimo dai contemporanei, oggi sarebbe stato definito artista “commerciale”, senza lasciar corrompere la sua ispirazione poetica e la qualità delle sue opere, cosa che, ieri come oggi, è più unica che rara.

Delacroix

Libertà che guida il popolo (1830). Museo del Louvre, Parigi

 

Eugène Delacroix (1798, Charenton-Saint-Maurice-1863, Parigi)

«Un grande genio malato di genio» Baudelaire

 

«Nei salotti tutti sussurravano: “Peccato che un uomo così affascinante faccia quadri del genere” », con queste parole Gautier ci trasmette il pensiero che la pittura di Delacroix suscitava nei francesi del tempo. In una Parigi abituata alle convenzioni stilistiche della scuola classica proprie dell’Accademia, Delacroix sconvolse fin da subito qualsiasi abitudine visiva: i suoi colori sono vibranti ed accesi, le sue composizioni si torcono e guizzano all’inseguimento di una forma solo accennata, il mondo raffigurato è agitato da passioni ed inquietudini.

 

Delacroix si ricollega ai maestri rinascimentali, non a caso è uno degli artisti più colti della sua generazione, per il risalto dato alla pittura di storia e per il vigore morale che infonde nelle sue composizioni, affiancandoli alla sua immaginazione ed interiorità. Nonostante la sua formazione classica, nella sua arte predomina il Romanticismo che, nelle esplosioni di colori e passioni, trascina l’osservatore nei movimenti e drammaticità delle scene dipinte. I personaggi che dipinge hanno un’anima, una vita interiore, nelle sue nervose pennellate e negli accesi contrasti cromatici si ritrova una vibrante emozione creativa che coinvolge lo spettatore. Le sue opere sono specchio dei suoi sogni, incubi e passioni; è questo che le faceva risplendere di una luce nuova nelle mostre annuali del Salon, fatte di sale stracolme di opere tutte uguali e senz’anima. Un bagliore che in pochissimi riuscirono a capire ed apprezzare, non riuscendo ad andare oltre le polemiche per i colori audaci e l’anticonformismo, perdendo la sincera trasposizione di un’anima, di quello che la turba, appassiona e commuove.

 

Per Delacroix la pittura «è una silenziosa potenza che parla dapprima agli occhi e che raggiunge e si impadronisce di tutte le facoltà dell’anima», da qui la necessità dello studio della realtà, della ricerca del vero e dell’uso dei colori che costituiranno un punto di riferimento per gli impressionisti. Contrapposta a questa è la sua visione del corpo materiale che zavorra la pura espressione dello spirito, da qui l’esaltazione dell’immaginazione come strumento rivelatore dell’interiorità.

 

L’opera di questa settimana è la “Libertà che guida il popolo”, nella quale una barricata diviene il simbolo di un sentimento collettivo, allegoria volta a celebrare la rivoluzione del Luglio 1830. Il dipinto scandalizzò il pubblico e venne considerato sovversivo, pericoloso. Nel caos del conflitto urbano, protagonista assoluta è Marianne, personificazione della Repubblica francese e dei suoi valori, che al centro del dipinto stringe in una mano il tricolore, nell’altra un fucile ed in testa indossa un cappello frigio, simbolo della rivoluzione. Marianne volge lo sguardo verso i cittadini esortandoli a combattere, fra loro sono presenti persone di diverse estrazioni sociali e di tutte le età; alla sua destra un ragazzino a rappresentare la forza ed il coraggio dei giovani. Ai piedi di Marianne un ragazzo inginocchiato la guarda con ammirazione, ritenendola l’unica forza in grado di cambiare la società. Al di sotto dei combattenti sono rappresentati i caduti, militari e rivoluzionari.

La scena è circondata da una coltre di fumo dovuta alla battaglia, che si dirada sulla destra per lasciare intravedere la cattedrale di Notre-Dame che ci permette di collocare la scena a Parigi.

Le tonalità utilizzate sono molto scure tranne che per la luce che accompagna i movimenti di Marianne; bleu, bianco e rosso, i colori della bandiera francese, sono utilizzati per vari dettagli. Il messaggio che Delacroix vuole trasmettere è l’ideale romantico della rivoluzione, nella quale ciascuno può combattere, anche idealmente, per raggiungere la libertà.

 

Voglio chiudere l’argomento di questa settimana riportando questo pensiero di Delacroix: «L’uomo reca nell’animo sentimenti innati, che non saranno mai soddisfatti dagli oggetti reali, ed è a tali sentimenti che la fantasia del pittore e del poeta daranno forma e vita».

Masaccio

Il Tributo (1425 circa). Cappella Brancacci, Firenze

 

Tommaso di Ser Giovanni Cassai, detto il Masaccio (1401, San Giovanni Valdarno – 1428, Roma)

«Optimo imitatore di natura, di gran rilievo universale, buon compositore ed puro sanza ornato, perché solo si decte all’imitazione del vero et al rilievo delle figure».

 

Tommaso, fin da giovanissimo così preso dall’arte da trascurare se stesso (da qui il soprannome Masaccio), arrivò a Firenze nel 1417, periodo nel quale la città stava vivendo una rivoluzione artistica e culturale che aveva stravolto l’architettura e la scultura, grazie soprattutto alle prime opere di Brunelleschi e Donatello. Furono proprio questi i Maestri che Masaccio scelse come punti di riferimento per l’affinità artistica che condivideva. Tutto questo fermento non aveva coinvolto la pittura, ancora legata allo stile tardo gotico così apprezzato dalla committenza ecclesiastica e nobile; l’ormai consolidata tipologia di questo stile lo rendeva facilmente riproducibile da meri copisti disinteressati a qualsiasi sviluppo artistico.

 

Fu Masaccio a trasferire questo nuovo stile nella pittura, attingendo a Brunelleschi, Donatello e Giotto, introducendo nelle sue opere un attento uso della prospettiva e dando forte rilievo a figure modellate dalla luce, in modo da ottenere raffigurazioni prive di ornamenti ma ricche di contenuti morali. La prospettiva di Giotto, in particolare, seppure empirica, venne ripresa, rinnovata ed arricchita da Masaccio, attraverso l’uso dei contemporanei avanzamenti nel campo dell’anatomia e della tecnica del chiaroscuro; venne così scardinata la “prospettiva gerarchica”, in vigore fin dal Medioevo, secondo la quale le figure dovevano avere dimensioni maggiori o minori sulla base della loro importanza. È il trionfo della razionalità e realtà sui valori simbolici delle rappresentazioni.

 

«Puro senza ornato» è questa la definizione più calzante dello stile di Masaccio caratterizzato dal trattamento della figura umana, da un’ordinata e chiara definizione degli spazi, luce ed atmosfera, ovvero un nuovissimo modo di raffigurare la realtà, di restituire la natura alla sua integrità a stretto contatto con l’uomo che ne rappresenta sia il momento essenziale che l’operoso modificatore.

 

L’immagine che ho scelto per il post di questa settimana è l’affresco intitolato “Il Tributo”, da molti considerato icona del Rinascimento, commissionata nel 1423 da Pietro Brancacci per decorare la cappella di famiglia nella chiesa del Carmine a Firenze. In quest’opera è rappresentato un episodio nel quale Gesù ed i suoi discepoli, per attraversare un ponte si trovarono a dover pagare un pedaggio. Non avendo denaro, Gesù disse a San Pietro di pescare un pesce dal fiume, nella bocca del quale verrà ritrovata la moneta necessaria per pagare il passaggio. L’immagine è sincrona, tutte le fasi della narrazione avvengono nello stesso momento. Rifacendosi alle sculture di Donatello, le figure sono caratterizzate da una monumentalità e serietà mai viste prima; enormi e solenni sono l’incarnazione della virtù e dignità umane proprie della filosofia rinascimentale. La scena è ambientata non in qualche luogo immaginario del passato ma, per la prima volta nella storia dell’arte fiorentina, nella campagna toscana e nelle strade di Firenze; questa rappresentazione di figure eroiche ambientate in un punto preciso del tempo e dello spazio, eleva e santifica il mondo dell’osservatore, ovvero la Firenze quattrocentesca.

 

La scena è illuminata dall’angolo in alto a destra, armonizzandosi in questo modo con la luce naturale della cappella. Masaccio usa le persone per creare la prospettiva, in particolare il gruppo di Gesù e degli apostoli al centro: se tutte le teste sono sulla stessa linea, ad indicare che l’osservatore si trova alla loro stessa altezza, i piedi sono collocati su piani orizzontali diversi, ciò fa variare la loro altezza e distanza. Le montagne sullo sfondo sono realisticamente rappresentate attraverso la prospettiva atmosferica: l’illusione della profondità è creata schiarendo i toni dei monti più lontani, simulando i cambiamenti causati dall’atmosfera sui colori di oggetti distanti. L’opera è rappresentazione della società contemporanea, i protagonisti della quale sono uomini fortissimi che hanno affrontato e vinto le fatiche della terra, cittadini stessi della Repubblica fiorentina, riconoscibili uno ad uno, solenni nel corpo e nell’anima rispettosi della santa disciplina del vivere.

 

La carriera artistica di Masaccio è durata solo sei anni e non lasciò nessuna bottega né alcun allievo, ma le sue opere hanno esercitato una fortissima influenza sugli artisti che lo hanno seguito (artisti del calibro di Leonardo da Vinci, Michelangelo e Raffaello) e sull’intera pittura Occidentale, consacrandolo immortale Maestro del colore.