Monet

Ninfee (1916-1919). Musee de l’Orangerie, Parigi

 

Claude-Oscar Monet (1840, Parigi- 1926, Giverny)

«Un volto nuovo della realtà rivelato dall’occhio del più importante pittore impressionista»

 

L’opera di Monet è strettamente legata a quel movimento che concluse le ricerche del naturalismo ottocentesco ed inaugurò l’arte moderna: l’impressionismo. La realtà mostra un volto nuovo, luminoso, arioso e fresco, i colori risplendono e la natura emerge viva e gioiosa. «Dipingo come un uccello canta», queste le parole scelte da Monet per descrivere la spontaneità e naturalezza del suo gesto creativo che ha disegnato un confine netto tra un prima ed un dopo. Prima, le ombre erano scandite da colori neutri, impera il chiaroscuro, l’atmosfera è cristallizzata e la luce serve per risaltare la consistenza esatta della forma; dopo, anche nelle ombre domina il colore, il nero è bandito, la forma è definita dalla vibrazione pulviscolare della luce e ne diventa sostanza fisica, il quadro è un’impressione fuggevole della natura rappresentata nella sua mutevolezza.

 

Nelle opere di Monet i colori (puri, non diluiti) scoppiano sulla tela in una moltitudine di pennellate piccole e veloci, i dettagli non sono a fuoco come a rappresentare un colpo d’occhio, il mondo viene rappresentato in un modo del tutto nuovo. Se il pubblico rimase sconcertato davanti a quelli che vedeva come abbozzi informi dagli assurdi colori, i pittori accolsero con scetticismo questo nuovo stile che ribaltava i principi della tradizione e che lasciava “incompiuta” l’opera. È proprio questa l’originalità dello stile di Monet: abbozzare il soggetto permette di fissare l’impressione del momento senza successivi ritocchi e ripensamenti che ne tradirebbero la spontaneità. Monet non dipinge quello che sappiamo delle cose, ma soltanto la realtà sensibile, quello che si vede. La costruzione ideale della realtà viene soppiantata dai fenomeni ottici della visione così, per esempio, gli alberi di un bosco o le case di una città, viste da lontano, diventano masse indistinte.

 

Le soluzioni della pittura tradizionale non erano più di alcun aiuto per il nuovo stile di Monet, il quale creò una pittura basata su pennellate frantumate in tocchi e virgole, nelle quali il colore risplende e la sostanza non è altro che la luce che si fa materia. Le pennellate sono staccate le une dalle altre e le sfumature diventano superflue; se l’osservazione del pittore è esatta l’immagine si ricomporrà, nell’occhio di chi osserva il quadro, in tutti i suoi dettagli. Da questo traspare l’intelligenza di Monet, l’aver riconosciuto all’esperienza sensoriale e razionale dello spettatore un ruolo di primo piano nella lettura ed interpretazione attiva delle opere. Il suo sviluppo artistico, dalle prime e quasi timide prove paesaggistiche, alle estreme rappresentazioni delle Ninfee, è determinato dal costante approfondimento del problema della luce e dalla consapevolezza di aver potenziato le capacità visive di coloro i quali avevano seguito e compreso i suoi lavori precedenti.

 

L’interesse di Monet verso le problematiche della rappresentazione ottica non deve lasciare adito a giudizi affrettati che potrebbero catalogarlo come un mero registratore fedele e scientifico delle impressioni ottiche, un abile decoratore: in realtà Monet è stato il primo a realizzare l’accordo tra osservazione del reale e trasfigurazione lirica. Il termine “impressione”, quindi, non indica il puro e semplice fenomeno ottico, ma anche l’emozione scaturita dal profondo dell’artista; si vede ciò che si ama e che si sceglie di vedere. E Monet ama la luce del sole che rivela le meraviglie della natura, l’aria aperta, la vita gioiosa delle cose e degli uomini, l’en plein air contrapposto alla pittura in studio dell’insegnamento accademico che soffoca il calore del sentimento dell’impressione.

 

Come immagine del post di questa settimana ho scelto un quadro della serie delle Ninfee, che occupa gli ultimi venti anni della sua vita, dedicata al giardino acquatico realizzato da Monet nella sua villa a Giverny. In quelle acque calme e ridenti non si rispecchiano solo le ninfee, quasi dissolte nell’atmosfera, ed il cielo, ma anche l’anima stessa dell’artista, commossa dal miracolo di un fiore che sboccia e cresce, malinconica, infiammata dalle passioni ed inquieta. Con il passare degli anni i particolari dell’ambiente circostante vanno via via scomparendo lasciando solo i fiori, che diventano espressione del profondo amore che Monet nutriva nei confronti di questo mondo e di tutte le creature. Con queste ultime grandi opere, intrise di un furore immaginativo che rinvigorisce anche l’impasto cromatico dei dipinti si spegne la vita creativa del grande artista.

 

Dunque, un fiore come testamento artistico di un vero precursore che ha saputo ampliare la nostra percezione dell’Universo. Non penso sia un caso che proprio nel momento in cui la vista, quel senso così idolatrato in gioventù, lo ha tradito, Monet sia riuscito ad infondere alle sue opere emozioni e sentimenti che le hanno rese vere Opere immortali. In fondo è vero, «non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».

Pontormo

Giuseppe in Egitto (1518, circa). National Gallery, Londra

 

Jacopo Carucci detto il Pontormo (1494, Empoli-1557, Firenze)

«Fra la regola rinascimentale e la “licenza” moderna, la più possente pittura di maniera».

 

Il periodo attorno al 1507, anno in cui Pontormo arrivò a Firenze, rappresentò un tempo delicato per la pittura fiorentina: la partenza quasi simultanea di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, spinse molti artisti verso gli schemi delle botteghe quattrocentesche e del classicismo.

 

Pontormo, appena tredicenne, ebbe modo di frequentare per pochissimo tempo la bottega di Leonardo, dove rimase impressionato dagli effetti di luce del Maestro. La sua formazione artistica è stata caratterizzata da continui cambiamenti di maestro che gli offrirono quelle suggestioni che caratterizzarono il suo personalissimo inserimento nella cultura contemporanea.

 

Secondo la testimonianza di Vasari, Pontormo non era soddisfatto della sua prima opera pubblica, l’Arme di Leone X, ed avrebbe voluto rifarla, segno della sua costante coscienza autocritica e della montante insofferenza verso la tecnica del suo maestro Andrea del Sarto. Già in un’opera di pochi anni dopo, la Veronica, ispirazione è il ben più prorompente modello michelangiolesco del Tondo Doni, ma ancora unito alla lezione classica.

 

La completa rottura con la regola rinascimentale è evidente nella Madonna e Santi; in quest’opera del 1518 è chiara l’influenza del “manierismo”. Con questo termine viene indicata una variante anticlassica, tormentata, ricca di finezze ed audacia, della cultura rinascimentale. In Pontormo la ricerca di una nuova maniera è “purificata” da un autentico tormento: anche quando l’abbandono alla maniera moderna sembrava completo, il richiamo alla regola rinascimentale rimaneva angosciosamente potente; nelle parole di Vasari «(una) licenzia, che non essendo di regola, (era) ordinata nella regola». Testimonianza di questo conflitto sono i tanti disegni di Pontormo nei quali, il fascino del naturale, la bellezza delle forme, l’ordine classico appartenenti alla regola, sono risucchiati dall’irresistibile fantasia, dalle audaci soluzioni dispositive e dalle variazioni di luce e materia.

 

L’immagine del post rappresenta l’opera Giuseppe in Egitto, nella quale emergono prepotenti i richiami alla nuova maniera. Una serie di episodi, rappresentati su piani diversi, raccontano il ricongiungimento di Giuseppe con la sua famiglia in Egitto; il protagonista, facilmente identificabile grazie alla sua tunica ocra, mantello violaceo e copricapo rosso, appare più volte in una narrazione continua. I colori sono ricchi e vividi con forti contrapposizioni tra luci ed ombre non più ammorbidite dal chiaroscuro sfumato. La composizione, decentrata e quasi caotica, è affollata da un brulicare di personaggi caratterizzati da volti e panneggi ispirati alle incisioni tedesche, nordico è anche l’aspetto del castello e degli alberi.

 

Pontormo, che pure ebbe potenti protettori come i Medici, non ebbe un apprezzamento duraturo. I commenti di Vasari, che dopo averne lodato le opere giovanili non apprezzò quelle più mature, gettarono per molti secoli un velo di disinteresse su Pontormo. L’inversione di tendenza si verificò agli inizi del Novecento quando, dopo la fioritura dell’impressionismo e delle avanguardie, vennero rivalutate le anticipazioni del linguaggio pittorico moderno liberato dalla fedele riproduzione della realtà. Di Pontormo vennero apprezzati i gesti innaturali e stilizzati, le prospettive irreali ed audaci, i drappeggi artificiosi e le espressioni pensose ed impaurite, ovvero tutto ciò che venne considerato negativo al suo tempo.

 

Dal mio punto di vista dalle opere di Pontormo traspare un messaggio profondo, ossia quella curiosità che porta l’uomo a liberarsi degli schemi già pronti ed a trovare nuove vie per esprimere il proprio ingegno, incurante delle perplessità che ciò poteva scatenare. In fondo, non è questa la molla che ci ha fatto progredire come specie?

Bosch

Trittico del Carro del fieno (1516 circa). Museo del Prado, Madrid

 

Hieronymus Bosch (1453-1516, Olanda)

«inventore… maraviglioso di cose fantastiche e bizzarre» L. Guicciardini.

 

Nel mondo dipinto da Bosch è sempre presente il tipico sottofondo di terrori, speranze, angosce e credenze di quel periodo di Medioevo ormai prossimo alla fine. Le sue tavole, brulicanti di vita, mostrano un universo posseduto dal maligno e dal peccato che hanno scardinato l’ordine delle cose.

 

L’epoca di Bosch è caratterizzata da un violentissimo sentimento religioso nel quale si rifletteva il contrasto tra la sensualità ed il misticismo fiamminghi: ai costumi esageratamente licenziosi, all’imperante gusto per l’osceno, al pullulare di sette e comunità, si contrapponeva la lotta spietata contro le pratiche magiche (è di quel periodo il Malleus maleficarum).

 

Queste tematiche, facilmente accessibili ai suoi contemporanei, risultano criptiche oggigiorno; il bisogno di interpretare la straripante miriade di simboli ha spesso messo in secondo piano lo spessore artistico di Bosch. La critica non è riuscita ad indicare chiari precedenti della pittura di Bosch la quale, anche se impregnata di spiriti gotici, appare nuova, isolata e singolare.

 

L’opera che ho scelto come immagine del post, un trittico intitolato Il carro di fieno, è ispirata ad un proverbio fiammingo «Il mondo è un monte di fieno, ognuno ne arraffa quanto può». Al centro compare Cristo nell’atto di dare il via al Giudizio universale, nello sportello di sinistra è raffigurato il Paradiso terrestre nel momento della cacciata dei Progenitori, quello di destra è occupato dalla rappresentazione dell’Inferno.

La parte centrale è dominata dalla massa bionda del carro di fieno che si staglia sul fondo azzurro del paesaggio. Quella che tenta di arraffare una manciata di fieno è un’umanità rissosa, carica di violenza, la gente finisce stritolata sotto le ruote del carro trainato da uomini mascherati flagellati da un mostro; in coda a questo grottesco e solenne corteo possiamo vedere il Papa, l’Imperatore e vari principi.
In primo piano si trovano il cavadenti, un non vedente guidato da un ragazzo, un prete seduto servito dalle monache che insaccano il fieno. In cima al mucchio di fieno due coppie siedono fra un angelo ed un diavolo.
La composizione è liquida, molto vivace, invita l’occhio ad una minuziosa osservazione dei particolari.

 

Ciò che affascina di Bosch, dal mio punto di vista, è che quando i suoi predecessori si limitarono a raffigurare l’aspetto esteriore dell’uomo, la sua audacia fu di dipingerne l’intimo con l’inestricabile groviglio di bene e di male.